Siria, profughi come pedine

Erdogan e Putin nel Risiko mediorientale

Tutti presi dal coronavirus guardiamo straniati le immagini della crescente emergenza umanitaria al confine tra Turchia e Grecia con migliaia di migranti che cercano disperatamente di passare dall’altra parte. Sono in maggioranza siriani spinti dai militari di Erdogan a forzare il blocco dell’esercito greco che cerca di far rispettare i propri confini. Una situazione allucinante e inammissibile dove ciascuno gioca la sua partita in cui le pedine sono i profughi siriani sacrificati cinicamente dal sultano turco. Uomini, donne, bambini in fuga dalla provincia di Idlib vengono usati come armi di ricatto per costringere l’Europa a sborsare altri miliardi a favore di Ankara e nello stesso tempo per conquistare posizioni di forza in un momento, per lui critico, sullo scacchiere del Mediterraneo orientale.  

Erdogan si è presentato a Bruxelles per ridiscutere gli accordi sui migranti, mettendo sul tavolo le richieste al rilancio in cambio di fermare il caos al confine con la Grecia. Non ha ottenuto altri fondi, se non la conferma del precedente patto. L’unico risultato concreto della sua duplice visita ai vertici dell’Ue e della Nato è stato di riaprire un dialogo interrotto, con l’intesa di continuare a discutere su linee più “distensive”. Martedì prossimo Erdogan vedrà ad Instanbul la Merkel e Macròn per approfondire ed eventualmente rivedere i termini dell’accordo di Sochi del 2016.

In questo quadro non possiamo sperare in una prossima soluzione verso una pace definitiva in Siria, perché gli eventi degli ultimi mesi hanno determinato un panorama ormai chiaro nel quale nessuno, di fatto, è disposto a cedere ciò che ha conquistato. Erdogan vuol mantenere la propria posizione sul territorio siriano per avere voce in capitolo sul futuro assetto del Paese, soprattutto sulla zona settentrionale abitata dai curdi considerati nemici “storici”. Il presidente Assad vuol completare la riunificazione schiacciando i ribelli jihadisti, mentre il suo potente alleato Putin pensa ad accelerare la stabilizzazione per incassare i benefici strategici ed economici (a partire dal gasdotto russo). 

Davanti alla prepotenza e ad una politica spregiudicata di Erdogan, l’Onu, l’Ue e la Nato sembrano impotenti ad agire con un atto forte che possa fermare il disegno espansionistico turco. E così per la Nato, di cui la Turchia è membro con la seconda potenza militare, ma a sua totale discrezione agendo in autonomia e in spregio alle politiche degli altri alleati. 

«La Siria è la più complicata sfida politica dei tempi moderni», ha detto l’ex segretario di stato americano John Kerry al Corriere della Sera. Un bacino infernale dentro il quale ci sono stati o ci sono in contemporanea sei o sette conflitti: tra ribelli e Assad, tra Turchia e curdi, tra Arabia Saudita e Iran, tra la coalizione internazionale e l’Isis, tra Iran e Israele, tra Russia e America.

Da quando gli Stati Uniti hanno cominciato a sfilarsi dal Medio Oriente e dall’Afghanistan, Erdogan ha alzato il tiro ed ora si ritrova solo con l’amico-nemico Putin (dipende dal momento) a disputarsi l’intera posta, ma pretendendo l’aiuto dell’Europa e della Nato. Quella stessa Europa che ha già sfidato violando gli accordi internazionali per lo sfruttamento dei giacimenti energetici nel Mediterraneo. In questo contesto il vero obiettivo di Erdogan è spingere l’Ue a bloccare il sostegno russo ad Assad. 

E l’Italia? Noi prima della guerra eravamo il secondo partner commerciale della Siria e già ci prepariamo con le nostre imprese per la ricostruzione, spiazzando inglesi e francesi schierati nella coalizione opposta. Quindi è facile capire con chi stiamo, seppure discretamente. Ma in Libia siamo con Saraj che è appoggiato dai turchi. Un Risiko davvero imbarazzante.

Il recente incontro al Cremlino tra il “sultano” e lo “zar” ha dato rassicurazioni sul cessate il fuoco nel nord della Siria (non sappiamo quanto credibili e stabili), ma nessuna certezza su una vera pacificazione. Qui la parola “pace” avrebbe un significato solo se la Turchia decidesse di lasciare i territori curdi occupati e Assad potesse riunificare il Paese entro i confini originari, consentendo il rientro di milioni di profughi. Ma oggi è un disegno utopistico. 

Dopo nove anni di guerra, 900 mila morti e quattro milioni di profughi, la maggioranza dei siriani e l’esercito sono ancora disposti a combattere per sostenere il presidente-dittatore Assad, che altrimenti sarebbe caduto da tempo come Gheddafi e gli altri leader spazzati dalle “primavere arabe”. Erdogan e Putin non vogliono una riunificazione e vedono questa guerra come il cavallo di Troia dell’intero Medio Oriente. Sì, perché il fronte dal nord della Siria arriva sino alla Libia dove i medesimi attori propongono i medesimi scenari: da una parte i lealisti di Tripoli appoggiati dai turchi e dall’altra i “ribelli” di Bengasi aiutati dai russi. Quindi, se non si risolve la questione siriana, non c’è speranza neppure per la Libia. 

Fonti:

Da L’Unione Sarda, 14 marzo 2020. Versione integrale dell’articolo per il sito

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