Iran, cinque mesi di rivolta

Una rivoluzione culturale da sostenere

Mentre l’attenzione mondiale punta i riflettori sulla catastrofe che ha colpito Turchia e Siria, continua con coraggio la protesta popolare in Iran. Tra terremoti, conflitti civili, milioni di profughi siriani e curdi allo stremo nei campi di confine e il gelo dell’inverno, la comunità internazionale si è mobilitata per una nuova emergenza umanitaria. Ebbene, di fronte a questo sconvolgente scenario, è chiaro che gli eventi in corso nel vicino Iran finiscano per passare sotto il silenzio mediatico, proprio nel momento in cui la protesta è dilagata in tutto il Paese. L’apparizione dell’attivista Pegah Moshir Pour sul palco di Sanremo, dove con un toccante monologo ha raccontato agli italiani come i diritti umani e delle donne siano negati dal regime, è stata un’improvvisa finestra aperta sull’oscurità in cui il presidente Khamenei vorrebbe nascondere la sua azione repressiva.

L’annuncio di un gesto di clemenza per scarcerare 20 mila detenuti in occasione della ricorrenza della rivoluzione islamica iraniana (11 febbraio) è stato ripreso dalla stampa internazionale che però ha messo in evidenza la crescente difficoltà degli ayatollah al potere. Il regime, dopo cinque mesi di proteste, vede che la feroce repressione non ha fermato gli oppositori e che il popolo non si è arreso agli arresti in massa e alle uccisioni (almeno 750 morti durante le manifestazioni). Le carceri sono strapiene e ormai ingestibili, ma ad essere liberati non sono certo i manifestanti contro i quali Khamenei non vuole cedere. L’unica concessione sinora fatta è stata l’abolizione della cosiddetta “polizia morale”, la stessa che aveva provocato la rivolta dopo l’uccisione della studentessa Mahsa Amini arrestata per aver indossato in modo improprio il velo. Così continuano gli arresti e le torture, mentre la protesta non si ferma.

Nonostante il clima di terrore sono sempre più numerose le donne iraniane che passeggiano senza indossare l’hijab obbligatorio. Si moltiplicano le iniziative dentro e fuori il Paese. Si chiede di chiudere le ambasciate iraniane nel mondo, trasformate in covi di spionaggio per dare la caccia agli oppositori in esilio. C’è chi invoca un intervento internazionale come avvenuto per l’Ucraina e c’è chi cerca di trovare all’interno un fronte comune per arrivare ad un referendum popolare che decida il futuro dell’Iran. Dagli Stati Uniti si propone Reza Ciro Pahlavi, il principe ereditario e figlio maggiore dell’ultimo Scià, cittadino americano, il quale sta cercando di ritagliarsi un ruolo da intermediario tra gli oppositori democratici al regime di Khamenei. In realtà la situazione è molto complessa e i media occidentali hanno difficoltà a narrare la rivoluzione culturale in atto, come spiega Nicola Melis, docente dell’università di Cagliari ed esperto di Medio Oriente. Parlando all’incontro promosso dalla Cgil regionale ha messo in evidenza come la prima protesta dopo l’uccisione della giovane Mahsa Amini, sia diventata in sequenza rivolta, sollevazione e infine rivoluzione. Attenzione, – rileva Melis – rivoluzione culturale non ideologica, che coinvolge la generazione dei Millenians che non hanno conosciuto Khomeini, nasce e si diffonde nei social, vede le donne protagoniste in un vero movimento femminista, si allarga al mondo civile. L’Iran è un grande Paese con una grande e millenaria storia, una nazione colta con un alto numero di laureati dove si studia e si possiede un’orgogliosa coscienza delle radici storiche, religiose e linguistiche dell’impero persiano.

Khamenei rappresenta l’ultimo strascico dell’eredità di Khomeini, che ha conquistato il potere dopo la cacciata dello Scià instaurando un governo teocratico e repressivo. Oggi, dopo 43 anni, questo potere non è più monolitico, ma diviso tra fazioni di ayatollah mentre gran parte del Paese non si sente più rappresentata. Ma l’Occidente deve ponderare bene come muoversi con le sanzioni, l’islamofobia prevalente rischia di condannare qualsiasi musulmano senza distinzione. Non è chiaro se a breve prevarrà la linea dura di Khamenei o quella riformista dei cambiamenti, ma la sollevazione ormai è generalizzata. Ogni rivoluzione ha un prezzo da pagare e gli iraniani lo stanno già pagando molto caro. Nelle statistiche di Amnesty, l’Iran è il secondo Paese del mondo per il numero di esecuzioni capitali: 1500 solo nell’ultimo anno su 88 milioni di abitanti, in proporzione un numero assai superiore al triste primato della Cina. 

Per questo l’Occidente deve sostenere la rivoluzione continuando a dare voce alle proteste con ogni genere di iniziative, a sostenere la diaspora degli iraniani in esilio e limitando le sanzioni che colpiscono la popolazione e quasi mai il potere.

Fonti:

L’Unione Sarda, 11.02.2023

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