Biden, Nato e Ue

La fine della missione in Afghanistan

L’ora del ritiro si avvicina. A settembre gli americani lasceranno l’Afghanistan e con loro le truppe della coalizione della missione di pace, italiani compresi, che già ieri hanno ammainato il tricolore nella base di Herat. Dopo vent’anni Biden firma la fine della guerra più lunga combattuta dagli Stati Uniti, costata miliardi di dollari, 2300 militari Usa uccisi e 20 mila feriti. Anche gli italiani hanno pagato un pesante tributo in proporzione all’impegno, con 53 vittime di cui 31 cadute in conflitti a fuoco o attentati. Una missione iniziata con l’obiettivo primario di eliminare Al Qaeda e la rete terroristica che aveva le basi nei deserti e nelle montagne dell’Afghanistan e nel contempo di portare la pace in un Paese sempre in guerra da oltre due secoli. 

Il primo risultato è stato ottenuto, con l’uccisione di Osama bin Laden, l’altro è ancora lontano e, secondo molti esperti, praticamente impossibile da raggiungere. Per dieci anni ci avevano provato anche i russi con un milione di soldati dell’Armata Rossa, subendo una sconfitta clamorosa e 15 mila morti riportati in segretezza e dimenticati, come racconta nel libro “Ragazzi di zinco” la giornalista e premio Nobel per la letteratura Svetlana Alexievic. Poi nel 2001, dopo l’oscuro e terrificante periodo con gli integralisti talebani al potere, ci hanno provato gli americani e la comunità internazionale sotto l’egida dell’Onu. Oggi, dei centomila uomini schierati all’inizio, ne restano 10 mila (3000 Usa, 7000 della coalizione e 800 italiani), ma entro la fine dell’estate il Paese tornerà nelle mani degli afghani con tutti i loro problemi interni. La decisione è stata presa a Washington e a Bruxelles: «Siamo andati assieme e ce ne andiamo via assieme», hanno  dichiarato i vertici della Nato. 

Il tema dell’Afghanistan sarà centrale nel primo viaggio all’estero del presidente americano, ricco di eventi: l’incontro con il premier inglese Johnson; il G7 in Cornovaglia, dall’11 al 13 giugno; poi il 14 a Bruxelles per il vertice della Nato e il vertice Usa-Ue. Ma il momento più risonante, dal punto di vista politico e mediatico, sarà il 16 a Ginevra con il primo faccia a faccia tra Biden e Putin. I due leader – come dichiarato dai rispettivi portavoce – dovranno «discutere un’ampia gamma di questioni urgenti mentre cercheranno di riaffermare la stabilità e prevedibilità delle relazioni tra Russia e Stati Uniti». 

Tra i nodi più difficili da affrontare spicca la crisi diplomatica aperta dalla Bielorussia, col dirottamento del volo Ryanair per favorire l’arresto di un giornalista dissidente. L’indignazione internazionale è la premessa delle misure che gli occidentali vorranno adottare nei confronti del presidente-dittatore Lukashenko, sinora protetto da Putin, ma ormai imbarazzante anche per lo zar di Mosca.

L’altra questione scottante nell’agenda dei vari summit riguarda i rapporti tra gli occidentali e la Cina, non solo per gli aspetti economici e dei commerci. Come si fa a trovare un tavolo d’intesa con un Paese che non condivide neppure uno dei nostri valori? Se lo è chiesto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg sottolineando che «Pechino non crede nella democrazia, non crede nella libertà di parola e dei media. E vediamo come opprimono le minoranze».

Di certo il viaggio di Biden apre ufficialmente una nuova era nei legami transatlantici dopo quattro anni tumultuosi di amministrazione Trump, sia   per i rapporti all’interno della Nato, sia nelle relazioni con Bruxelles. Ma si guarda ancor di più sull’incontro a due con Putin, corteggiato e blandito da Trump, ma col risultato che poi si è fatto sempre gli affari suoi indisturbato, in Ucraina, Siria, Libia e via elencando con l’ambizione di riportare la Russia al rango di superpotenza tra Usa e Cina. 

L’Italia in tutto questo rischia di ritrovarsi al ruolo di spettatore, se non dovesse assumere posizioni chiare e decise su tutta la linea. Per il governo Draghi è primaria la questione della Libia e della gestione dei flussi dei migranti. Con un’incognita che si profila proprio con la fine della missione in Afghanistan. Se i talebani dovessero riprendere il controllo di Kabul come nel 1996, la risposta armata da parte delle altre minoranze etniche sarebbe inevitabile. Tra le conseguenze prevedibili una nuova ondata in massa verso l’Europa che ha già accolto una buona parte dei tre milioni di profughi scappati in questi venti anni. Dopo il grande impegno dell’Alleanza in Afghanistan sarebbe davvero un pesante smacco per tutti.

 

Fonti:

L’Unione Sarda, 09.06.2021

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