I soldati di zinco

Disinformazione e guerra social

Le immagini della guerra entrano nelle nostre case in ogni momento, tutti i canali tv mostrano non stop l’orrore di città devastate, scheletri di edifici, carcasse di auto bruciate, carri armati distrutti, scenari di paesaggi bombardati dove la vita di una volta non c’è più e chissà quando e come potrà tornare. I commenti raccontano di morti e feriti, ma nessuno è in grado di fare un bilancio delle vittime civili e militari. Sembra un paradosso della prima guerra all’epoca dei social, dove chiunque può inviare foto, messaggi e video testimoniando in tempo reale gli eventi che accadono. Ma è una narrazione frammentaria che richiede verifiche e la composizione di un puzzle più complesso dei fatti, quasi impossibile da ricostruire in assenza di notizie certe. 

Ognuno la racconta come vuole, seguendo la propria interpretazione e posizione. Oppure non la racconta per niente come i russi che hanno il divieto assoluto per qualsiasi informazione se non quella degli organi ufficiali. Sin dal primo giorno Putin ha imposto una censura di ferro, bloccato internet, oscurato siti, ordinato la chiusura di giornali e tv. Tutte le voci dell’opposizione sono silenziate con una legge che vieta persino di pronunciare la parola “guerra” e prevede pene severissime per i trasgressori. Migliaia gli arresti, in cella anche solo chi va in piazza o espone cartelli bianchi. Per Putin non c’è una guerra, ma “un’operazione speciale” contro chi minaccia l’integrità della Russia, perseguita le minoranze russofone e pretende di entrare nella Nato. Ecco come il massacro degli ucraini a suon di missili e cannoni viene raccontato ai russi e come ci viene riferito dalle testimonianze di chi fugge. La macchina della propaganda funziona per il regime di terrore, ma anche perché una larga maggioranza della popolazione crede ciecamente alla narrazione imposta dal nuovo zar.

Durante i due anni del Covid-19 ogni giorno siamo stati informati dai media con grafici e tabelle sull’andamento della pandemia. Anche quella era ed è ancora una guerra, in cui è noto il nemico seppure invisibile e si pubblicizza tutto per poterlo sconfiggere. Al contrario di ciò che sta accadendo in Ucraina, dove è impossibile fare la conta delle vittime.

Riferendosi solo ai militari, il ministero della Difesa di Mosca nella prima decade del conflitto ha ammesso appena cinquecento morti e 1.600 feriti. Cifre contestate dagli Stati Uniti che parlano di un numero tra due e quattromila caduti e dagli ucraini che arrivano addirittura a 12 mila. Anche prendendo per buoni i dati russi, sono tanti i decessi: settanta al giorno, contro un massimo di quattro nella catastrofica guerra in Afghanistan e sette nella seconda campagna cecena. Per fare un paragone, nel Vietnam gli Usa perdevano dieci soldati al giorno. A tre settimane dall’attacco questi numeri saranno forse raddoppiati se non moltiplicati per l’intensificarsi dei bombardamenti. Non si conosce invece il numero dei militari ucraini, fonti apparse sui media parlano di un quarto rispetto ai caduti russi. Oggi è quanto sappiamo. Ma un giorno la verità di questo assurdo massacro verrà fuori per essere consegnata alla storia e per i russi sarà una verità terribile.

È già accaduto nel recente passato con i reportage e i libri della giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič, ucraina di nascita, che ha raccontato le guerre del scorso secolo, la fine dell’Urss, il disastro di Cernobyl. È andata a raccogliere testimonianze casa per casa dei familiari dei soldati morti, dei reduci, degli ex sovietici. Sono venuti fuori capolavori quali “Ragazzi di zinco” (simbolo delle bare dei militari uccisi in Afghanistan e dimenticati dal governo sovietico per la vergogna della sconfitta) oppure “Preghiera per Cernobyl” con i segreti nascosti dopo l’esplosione al reattore atomico. Per questo nel 2015 ha ricevuto il Nobel per la letteratura, mentre il premio per la pace del 2021 è stato assegnato ad un altro coraggioso giornalista: quel Dmitry Muratov, caporedattore del quotidiano Novaya Gazeta che denuncia la corruzione governativa e le violazioni dei diritti umani.

Ai due è doveroso aggiungere Anna Politkovskaja che ha dedicato la vita a raccontare le nefandezze del regime e delle guerre in Cecenia, sino a quando non è stata assassinata da tre killer poi individuati e condannati, ma che mai hanno rivelato il mandante (Putin?). Oggi nelle principali librerie italiane sono in evidenza i loro libri che ci svelano una realtà molto simile all’attuale situazione in Ucraina.

Fonti:

L’Unione Sarda, 21.03.2020

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