Il vento dei Balcani

Tensioni etniche e ai confini mentre sei Paesi bussano all'Ue

La bomba umanitaria innescata dal dittatore Lukashenko al confine tra la Bielorussia e la Polonia chiude un anno di escalation sui conflitti che hanno aggravato ancor di più la catastrofe della pandemia. Profughi usati come ostaggi per ricattare la comunità europea, chiamata da Varsavia e dai tre Paesi baltici ad intervenire sulla base del trattato Nato di reciproco aiuto in caso di minaccia. Un problema che Bruxelles sta affrontando con i primi finanziamenti, ma per ora senza un programma condiviso su come agire per salvare le migliaia di disperati accampati nel gelo della foresta al confine polacco. E soprattutto su cosa fare per fermare le ondate di migranti che continueranno ad arrivare dall’Oriente. 

Il 2021 lascia aperti numerosi punti sulle crisi che hanno coinvolto direttamente l’Europa. E c’è di più: le guerre in atto e la fuga degli occidentali dal’Afghanistan hanno fatto passare in secondo piano, nel dibattito continentale, temi che rischiano di aprire nuovi fronti esplosivi. Quest’anno è caduto il trentennale della fine dell’ex Jugoslavia, che portò ad uno sconvolgimento totale in un’area da sempre cruciale per l’intero continente. 

Nel gennaio 1991 la guerra scoppiò prima in Slovenia, poi in Croazia. In seguito si scatenò l’inferno in Bosnia Erzegovina. La capitale Sarajevo fu stretta nell’assedio più lungo dopo la seconda guerra mondiale (quattro anni di scontri, oltre diecimila morti). Un decennio in cui si sono formate le attuali nazioni indipendenti e culminato nel 1999 con i bombardamenti della Nato su Belgrado per mettere fine al sogno anacronistico e arrogante della “Grande Serbia”. 

Da allora i nuovi stati nati dal disfacimento dell’ex federazione jugoslava hanno voltato pagina, cercando di ritagliarsi un ruolo nell’Europa democratica e comunitaria. Slovenia (2004) e Croazia (2013) sono già entrate nell’Ue, ora sono in lista d’attesa gli altri sei Paesi dei Balcani occidentali: Albania, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord e Kosovo. Da tempo bussano alla porta, ma prima di essere ammessi devono ancora allinearsi ai criteri di adesione dell’Ue.

Lo scorso ottobre, in un vertice in Slovenia, i leader dei 27 hanno approvato l’allargamento ai sei, ma senza fissare scadenze precise. Il nuovo via libera (dopo quello di Salonicco nel 2003) potrebbe accelerare il processo di ammissione, ma l’attuale situazione non sembra indulgere all’ottimismo. E questo si evidenzia nei focolai che con preoccupante periodicità si riaccendono ai confini tra i vari Paesi. Alcuni segnali più recenti? Ai primi di settembre gravi scontri tra polizia e manifestanti antiserbi a Cetinje, l’antica capitale reale del Montenegro, per l’insediamento del nuovo metropolita ortodosso. I dimostranti si sono opposti all’insediamento, poiché ritengono che sia un diretto emissario di Belgrado e della Chiesa ortodossa serba non riconosciuta nello stato indipendente. Al contrario nella stessa Belgrado un gruppo di attivisti per i diritti umani è stato arrestato dalla polizia mentre cercava di cancellare il murale del generale serbo-bosniaco Ratko Mladić, il boia di Srebrenica, condannato all’ergastolo dal tribunale dell’Aja (nella foto di copertina).

Continue tensioni si registrano ai confini tra Serbia e Kosovo, ma più di tutto preoccupano le spinte secessioniste in Bosnia Erzegovina con i timori per un nuovo conflitto che possa spaccare il Paese. L’allarme lanciato dall’Alto rappresentante dell’Ohr (l’organismo diplomatico internazionale) a Sarajevo, il tedesco Christian Schmidt, richiama l’attenzione sulla ripresa di rivendicazioni nazionaliste guidate dal leader dell’etnia serba Milorad Dodik che vorrebbe ricostituire un esercito di centomila uomini e preme per la secessione di questa parte dello stato che occupa la metà del territorio della Bosnia (grande quanto la Sicilia). 

Così l’Ue ha appena deciso di prolungare la missione di pace “Eufor”, a cui partecipa anche l’Italia, per prevenire possibili incidenti deflagranti. Insomma, hanno ripreso ad agitarsi vecchi fantasmi che possono far saltare gli accordi di Dayton del 1995 su cui si fonda la complessa struttura politica che governa il mosaico etnico religioso della Bosnia Erzegovina.

Sarajevo è rinata dalla guerra del 1992-96, ma le ferite non si sono certo cicatrizzate. Come sappiamo questa capitale è un punto nevralgico non solo dei Balcani, ma dell’Europa centrale. Un clima dunque che ostacola il processo di adesione alla comunità, proprio mentre l’Ue rappresenta il maggior investitore nella regione e oggi si trova a competere con Cina, Russia e Turchia che stanno arrivando con i loro enormi investimenti.

 

Fonti:

L’Unione Sarda, 24.11.2021

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