Con la presa di Kabul l’Afghanistan è di nuovo nelle mani dei talebani. Dopo vent’anni si è azzerato l’orologio della storia e tutto fa pensare al ritorno, a breve, dell’oscurantismo fondamentalista nel grande Paese crocevia di traffici e interessi tra Medio Oriente e Asia. Nessuno oggi può dire cosa avverrà nei prossimi giorni o mesi quando tutti gli occidentali avranno abbandonato l’Afghanistan e si spegneranno le telecamere dei media internazionali. Le rassicurazioni dei capi talebani contrastano con le notizie di atrocità che giungono dai centri dell’interno e con le voci terrorizzate di chi ha avuto un qualche ruolo a fianco degli alleati della Nato. Dopo la fuga in Uzbekistan del presidente Ashraf Ghani, che ormai non rappresentava più nessuno, il futuro dipenderà dalla volontà politica dei leader del rinato Emirato islamico e dagli equilibri delle potenze che si stanno posizionando negli spazi lasciati liberi dagli americani. Cina, Russia, Pakistan, Iran e Turchia giocheranno un ruolo importante per limitare il ripristino di un regime sanguinario, per avere garanzie contro i rigurgiti di cellule terroristiche e per evitare un esodo di milioni di profughi. Uno scenario catastrofico, quest’ultimo, anche per l’Europa che dovrebbe affrontare una nuova ondata di migranti.
La “missione di pace” (così definita dopo la guerra dichiarata al terrorismo islamico) si è dunque conclusa col drammatico ritiro degli occidentali e la chiusura delle ambasciate. Pensiamo all’amarezza dei soldati della Brigata Sassari che si sono alternati in quattro missioni ad Herat e numerosi hanno operato negli avamposti di confine nel deserto tra le montagne come a Bala Murghab.«Siamo andati a portare la pace e a fare il nostro dovere» di sicuro risponderebbero, ricordando il gran lavoro svolto per il controllo delle zone pericolose e per realizzare quelle strutture civili indispensabili alla vita quotidiana. E che dire delle soldatesse che hanno potuto avvicinare le donne aiutandole in ogni modo? Cosa resterà di tutti i loro rischi e sacrifici?
Bala Murghab è un nome che non evoca la pace, ma combattimenti, freddo e polvere in uno scenario lunare. Lì sono morti alcuni di quei 53 militari italiani caduti nella ventennale missione tra scontri armati e incidenti. Cinque i sardi riportati a casa avvolti nel tricolore. Quel villaggio, in un’ampia vallata a nord di Herat (la provincia affidata al controllo degli italiani) era stato conquistato nell’agosto del 2008. Per tenere la base nell’ex cotonificio poco fuori dal centro abitato i nostri fanti combatterono per molti giorni. Da allora è stato il settore più caldo presidiato dagli italiani e divenuto un vero inferno fino al ritiro dei mesi scorsi che ha lasciato queste aree alle sole forze afghane.
Ora i talebani si sono ripresi l’intero Paese con un’offensiva così rapida da aver stupito gli stessi americani. Biden, tuttavia, afferma che l’obiettivo iniziale è stato ottenuto con la sconfitta del terrorismo, l’eliminazione di “al Qaeda” e di Bin Laden. Inoltre – sostiene il presidente – sono state poste le basi per una svolta civile e democratica, armando 350 mila soldati afghani che avrebbero dovuto combattere per la loro nazione e la libertà. Ma aggiunge che «gli Usa non sarebbero potuti restare ancora dopo vent’anni di impegno». Oggi sappiamo come è finita con quell’esercito che si è dissolto e il presidente in fuga. Nel volgere di poche settimane dalla partenza dei contingenti Usa e Nato (italiani compresi) si è consumata l’immensa tragedia di un popolo che si ritrova in ostaggio degli integralisti pronti a ristabilire le loro norme coraniche. Difficile farsi illusioni e credere che i talebani faranno concessioni dopo aver occupato con le armi tutto il Paese. Anche se ieri hanno annunciato caute aperture per formare un governo “inclusivo”, che comprenda ex governativi e persino le donne.
La sintesi degli analisti è impietosa. Gli occidentali hanno perso la guerra; l’esercito afghano ha dimostrato la piena incapacità ad operare senza l’apporto della Nato; le conquiste civili faticosamente costruite andranno presto perdute. Pensare di esportare una sorta di democrazia di tipo occidentale è stato un progetto utopistico e velleitario, dal costo altissimo in vittime (3500 morti solo tra gli uomini della Nato), aiuti umanitari e spese militari per un totale stimato di tremila miliardi di dollari (9 miliardi per l’Italia). La “legge” dell’Afghanistan indomabile, che nella sua millenaria storia nessun esercito è riuscito a stabilizzare, si ripropone in questi giorni con le immagini di un caotico ponte aereo da Kabul per portare via più gente possibile. Finché non si chiuderanno le porte.