Consensi e critiche sull’inchiesta

Murtas ricostruisce le reazioni sui giornali
Giornalia

Gli articoli apparsi sul Corriere nel 1963 ebbero subito una forte eco anche in Sardegna con commenti di tutti i generi, molti apprezzamenti, ma non mancarono le critiche sia a livello politico, sia sulla stampa locale. Lo studioso Gianfranco Murtas ha ripreso in un suo saggio pubblicato in due parti sul sito della Fondazione Sardinia (gennaio 2018) il reportage del Corriere poi accluso nel volume edito da Sansoni e alcuni significativi interventi sulla stampa sarda. In particolare riprende gli articoli di Cesaraccio, Dessanay e Botticini.

Si veda il link Fondazione.

Gianfranco Murtas

“Tempestivo – scrive Murtas – fu l’articolo di Aldo Cesaraccio, caporedattore/vicedirettore della Nuova Sardegna che, con lo pseudonimo Frumentario, firmava la rubrica quotidiana “il Caffè”. Appare sabato 15 giugno, in contemporanea col penultimo articolo del reportage, nel quale commento Cesaraccio plaude all’iniziativa del Corriere: «Se non sbaglio, il fatto del giorno, in materia di “moda” della Sardegna, sono gli articoli di Indro Montanelli sul Corriere.  È giusto che sia così. Anzitutto si tratta pur sempre del maggior quotidiano italiano. In secondo luogo si tratta di un’inchiesta nazionale che s’inizia in Sardegna, non, putacaso, nella solita Sicilia o nella obbligatoria Puglia, e per elezione, non per suggestione dall’alto. In terzo luogo si tratta di quello che, per me e per molti altri, è il “nome” più prestigioso del giornalismo italiano contemporaneo, se prestigio è per un giornalista il “farsi leggere” sia con trasporto sia con dispetto».

Murtas quindi ripropone le critiche di Sebastiano Dessanay su “Sardegna oggi”, sottolineando quanto il politico e intellettuale socialista aveva voluto mettere in evidenza cogliendo la caratteristica tecnica di Montanelli di “saper unire gli opposti giudizi” così da accattivarsi il consenso sia di una parte sia dell’altra dei lettori: «Montanelli, scrivendo per conto del neocapitalismo lombardo, parla di cose concrete, con un’apparenza di anticonformismo. Diciamo apparenza perché non ci si deve lasciar distrarre da alcune verità dette, quando esse servono a coprire, a velare, un obiettivo sostanzialmente conformista. È nella tecnica di Montanelli di guardare alla realtà da due angolature diverse, quella spregiudicata e quella del “ben pensante”. Da ogni suo articolo, con un lavoro di espunzione di frasi, si potrebbero ricavare due articoli distinti, l’uno in contrasto con l’altro: il primo condivisibile da ogni democratico di sinistra, il secondo buono per i reazionari più spinti…»

Infine Murtas presenta le riserve del prof. Rinaldo Botticini in un articolo dal titolo “La Sardegna di Montanelli”, su L’Unione Sarda del 1° febbraio 1966. L’intellettuale di origini lombarde (Gottolengo, 1937-Cagliari, 1994), docente di scuola superiore  e scrittore socialista, assessore comunale alla cultura (1977) nella prima giunta a guida Psi con Salvatore Ferrara sindaco, commenta il reportage dell’inviato del Corriere quando sarà pubblicato nel corposo volume “Italia sotto inchiesta” (Sansoni, Milano, 1965): commento – sottolinea Murtas – piuttosto critico (talvolta quasi caricaturale).

Ed ecco di seguito i testi dei due saggi di Murtas a cui rimandiamo nei link della Fondazione.

«Di Sardegna sono effettivamente intriso». Quella volta che Montanelli «parlò da sardo». Era il 1963 (il link della prima parte)

«Di Sardegna sono effettivamente intriso». Quella volta che Montanelli «parlò da sardo». Era il 1963 (il link della seconda parte)

L’apprezzamento di Frumentario

Giunge tempestivo dal caporedattore/vice direttore de La Nuova Sardegna, Aldo Cesaraccio in arte Frumentario, il consenso alle tesi montanelliane. Così nella rubrica quotidiana “Al caffè” del 15 giugno 1963:

«Se non sbaglio, il fatto del giorno, in materia di “moda” della Sardegna, sono gli articoli di Indro Montanelli sul Corriere.

È giusto che sia così. Anzitutto si tratta pur sempre del maggior quotidiano italiano. In secondo luogo si tratta di un’inchiesta nazionale che s’inizia in Sardegna, non, putacaso, nella solita Sicilia o nella obbligatoria Puglia, e per elezione, non per suggestione dall’alto. In terzo luogo si tratta di quello che, per me e per molti altri, è il “nome” più prestigioso del giornalismo italiano contemporaneo, se prestigio è per un giornalista il “farsi leggere” sia con trasporto sia con dispetto. E potrei continuare con altre “pezze”: sicurezza che parecchie centinaia di migliaia di altri italiani si interessano alle cose sarde, riconferma che la Sardegna si sottrae al bilancio segretamente covato dai capoccia di certa politica nazionale sui “pesi morti” veri e presunti della Nazione, energiche e amichevoli strigliate per taluni difetti dei miei conterranei (e anche miei, si capisce) che finiscono per fare miglior figura di certe virtù vantate da altri connazionali. Ma preferisco qui aggiungere uno di quegli “eccetera” che lo stesso Montanelli sa così avvedutamente collocare, sempre al posto giusto, nel suo fluido racconto delle cose viste.

Pregi e difetti dei sardi

«Io non so se sia vero che Indro Montanelli intenderebbe stabilire qui, in Sardegna, un suo “buen retiro”: significherebbe che, tirate le somme, egli vorrebbe divorziare dalle virtù della Penisola per sposare i difetti della nostra isola, e cioè confermare il brevetto di preminenza di questi su quelle. Certo, si comporta nei suoi articoli come se dovesse diventare uno di noi, anzi come se già lo fosse (e non è legittimata tanta amicizia dal non più recente trascorso a Nuoro, valido tutt’al più per scriverci un libro ma non per sentirsi qui ancora di casa), vuoi quando, con ammirevole semplicità diagnostica, sottolinea certi pregi ancora schietti della nostra gente, vuoi quando, con la franchezza del vero amico, ne esalta certi difetti. Insomma, è un avvenimento importante, questa inchiesta del Corriere, e per le ragioni che sono riuscito a citare, più qualche altra che tutti noi sardi possiamo agevolmente individuare leggendo i singoli articoli.

«Inchieste sulla Sardegna non ce ne sono mai mancate, da Cicerone a Quintino Sella, e se ce ne fossero mancate nel passato quelle contemporanee suffragherebbero egregiamente due millenni di silenzio. Ci sono le inchieste ufficiali che, quando non arrecano danno, non smuovono un granello di trachite dai severi nuraghi; e ci sono quelle giornalistiche che quando non sono pure esercitazioni di stile o ossequioso corrispettivo di certa ospitalità ufficiale, finiscono per consolidare certi schemi fotografici della nostra isola (bellezze naturali, banditi e carabinieri, pecore e formaggio, nuraghi e avvocati) dai quali è difficile liberarci più di quanto lo fosse dalla malaria. Prendete, invece, l‘articolo di presentazione dell’inchiesta di Montanelli che s’occupava proprio della malaria e della sua felice dipartita. Avete subito un quadro essenziale di quel che è oggi la Sardegna, e la dimostrazione che l’isola è tale (e potrà domani essere talaltra) esclusivamente perché la malaria (della quale, dice Montanelli, “morivano anche le zanzare”) se ne è andata.

«Che cosa dice Montanelli più di quegli altri (pochi, invero, e io mi ci metto in mezzo con un certo presuntuoso orgoglio), che considerano nella giusta misura questo evento storico? Dice che è vergogna che esso sia maturato come frutto di dollari e iniziative dell’America anziché come prodotto della considerazione e della solidarietà dell’Italia. Che poi questo non abbia mai, neanche attraverso dispettosi borbottamenti, alterato lo spirito nazionale dei Sardi né abbia acceso certi furibondi pretesti separatisti allegramente divampati per molto meno in altre regioni “depresse”, Montanelli non lo dice, ma lo fa intendere assai bene, quando interpreta come acquiescenza anziché come vocazione l’ordinamento regionale di cui i Sardi sono stati dotati.

Non mancano le “sviste”

«Si capisce, quando un’inchiesta giornalistica ha tali dimensioni e tanta importanza, è fin troppo facile a quei causidici nati che sono i miei conterranei (e soprattutto i miei concittadini) trovare le anche minime mende d’informazione storica e statistica, che secondo un pittoresco proverbio dialettale sassarese – forse originario toscano – è un modo di rimediare una “cordula” con le budelle di una mosca. Ma poco importa rilevare l’evidente svista dell’aver negato l’esistenza in Sardegna di un ordinamento feudale (anzi, esso s’iniziò nell’isola quando altrove era finito, fra le risse dei Comuni o i vertici delle Signorie: arrivò in ritardo, come tutto in Sardegna, il bene e il male): poco importa che si sia attribuita ai Sardi la facoltà di assorbire 800 milioni annui di kilowattore di energia elettrica al posto degli effettivi 5-600 milioni (l’errore per eccesso dà, però, maggior forza alla tesi di Montanelli): e importa anche meno che non sia stato sottolineato il primato sardo di mortalità, non come blasone ma come termine di paragone in rapporto alla scarsa densità della popolazione e alla crudezza dello sbilancio migratorio. Quel che conta è l’aver presentato una Sardegna quale è realmente, nel buono e nel suo contrario, con un’interpretazione, una sintesi, un giudizio che sono, secondo me, documenti di prima importanza per chi, di casa, non si accontenti di vedersi allo specchio ma abbia il gusto e senta il bisogno di sapere con esattezza come lo vedono gli altri: requisito che, per i Sardi e per la loro così detta classe dirigente, è stato sempre una necessità ma è adesso una urgenza.

Il valore di documento

«Quando si fanno distinzioni altamente onorifiche, come le fa Montanelli, fra sardi e altri meridionali; quando si discorre con tanta serietà dei rapporti fra “blasone del pastore” e “scettro del contadino”; quando si “centra”  in pieno la relazione fra certo “forsennato individualismo” e quella “anarchia” che induce il pastore ad amare la pecora perché ne è la figlia (dell’anarchia); quando si condensa il dramma spaventoso dell’abigeato nel dire che esso “mette ognuno alla mercé di ognuno”; quando con spietata onestà si denuncia il vergognoso sperpero di miliardi nel Sulcis e si ammonisce sul rischio di sperperarne molti altri ancora; quando non si esita a spiattellare bell’è grosso che gigantesche dighe rischiano di non servire a niente o, peggio, a nessuno (ricordino i miei lettori questo e altri argomenti, e ricordino per le dighe l’analogo avvertimento di Segni, almeno quello); ebbene, quando, senza impicci né di riguardi né di opinioni verso la politica, la troppa politica che si fa in Sardegna prima delle “cose” anziché dopo, vi assicuro che un’inchiesta giornalistica assume a giusto diritto il valore di un documento. E’ quello, appunto, che volevo dire».

Le critiche di Dessanay

Sebastiano Dessanay

A fronte delle espressioni di consenso venute da Frumentario – continua Murtas nel suo saggio – si pongono, durante le uscite delle sette puntate, quelle critiche, tutte ben argomentate anch’esse, a firma di Sebastiano Dessanay, consigliere e assessore regionale del PSI, intellettuale di punta della sinistra isolana e tra i padri dell’Autonomia regionale, che ne scrive sul periodico Sardegna oggi (n. 28 dello stesso 1963).  Dessanay (Terralba 1904 – Cagliari 1986) fu un grande politico sardo (sulla sua biografia si veda l’articolo scritto da Ezio Pirastu sul Messaggero Sardo, intitolato “La scomparsa di un protagonista” ).

Murtas riprende alcuni stralci particolarmente significativi riguardo all’inchiesta montanelliana.

«Montanelli, scrivendo per conto del neocapitalismo lombardo, parla di cose concrete, con un’apparenza di anticonformismo. Diciamo apparenza perché non ci si deve lasciar distrarre da alcune verità dette, quando esse servono a coprire, a velare, un obiettivo sostanzialmente conformista. È nella tecnica di Montanelli di guardare alla realtà da due angolature diverse, quella spregiudicata e quella del “ben pensante”. Da ogni suo articolo, con un lavoro di espunzione di frasi, si potrebbero ricavare due articoli distinti, l’uno in contrasto con l’altro: il primo condivisibile da ogni democratico di sinistra, il secondo buono per i reazionari più spinti…». Così l’incipit che insiste anche nella rappresentazione delle contraddizioni, vere o presunte, dell’inviato del Corriere.

«Oggi egli si professa socialdemocratico – aggiunge Dessanay – , ma è contro le Regioni, contro la nazionalizzazione delle fonti d’energia, contro la politica di piano… La tecnica di Montanelli è in sostanza di mettersi a cavallo tra due aspetti, tra due interpretazioni diverse della stessa realtà, ed ha appena finito di dire cose sgradevoli per i lettori di destra, e quindi anticonformiste, quant’ecco l’altra campana, ma suonata con strepito così forte da coprire il primo suono. In Sardegna la produzione d’energia elettrica è a un livello molto basso, ma sarebbe da sciocchi rimproverare alla Società Elettrica Sarda d’essersi regolata secondo la legge del profitto. Il potere mette la classe dirigente sarda in grado di formare una clientela, cioè di ripiombare la vita sarda nel suo vecchio vizio, ma Corrias, Melis, Dettori, Filigheddu sono uomini esemplari. L’Etfas sperpera i quattrini in stipendi per la sua pletorica burocrazia, ma i soli villaggi rurali puliti e moderni che è possibile visitare nell’isola sono dell’ente di riforma. Si è pensato a invasare l’acqua in grandi dighe e non ai lavori di canalizzazione a scopi irrigui, e ciò deriverebbe dalla mania pianificatrice degli enti pubblici. E se qualcosa di buono in Sardegna si è fatto, questo è merito dell’iniziativa privata (vedi Arborea, bonificata dalla Società Elettrica Sarda). E se la Rockefeller, dopo aver vinto la malaria, non è rimasta per altre grandi iniziative, la colpa è della Democrazia cristiana che, temendo i socialcomunisti, ha vietato ad un organismo americano di continuare ad operare nell’isola. Un liberale, Raffaele Sanna Randaccio, ha chiamato in Sardegna gli americani e la malaria non c’è più; poi gli altri a sinistra del partito liberali li hanno cacciati via».

Verità scottanti

Ancora continua Dessanay: «Montanelli, si capisce, è un grande giornalista, e se ha da spingere avanti un gioco, lo fa con rara intelligenza. Confessiamo dunque che, dopo i primi tre articoli, ci era venuta la tentazione di esprimere un giudizio perlomeno non negativo. Perché Montanelli alcune verità scottanti le ha dette, e bisogna dargliene atto. Infine, è stata la lettura del quarto articolo a illuminare gli antecedenti e a mettere nel giusto posto anche quelle che sembravano denunce coraggiose.

«E’ vero che la malaria e la siccità hanno esercitato una malefica influenza sulle popolazioni della Sardegna, ma da questo a sostenere che a queste due calamità e ad esse sole si deve la mancanza di spirito di iniziativa dei sardi ci corre. La mancanza di iniziativa ha ragioni storico-politiche assai più profonde di quanto Montanelli non sospetti. La malaria ha cacciato il sardo dalle coste e “ha fatto di lui un nemico del mare”, sì, ma soprattutto lo hanno ridotto alle montagne i vari conquistatori e le incursioni barbaresche.

«E’ vero che in Sardegna non “ci sono ville signorili” e non c’è traccia del classico latifondo di origine feudale; ma concludere da questo che il feudalesimo non è passato su questa terra e che la Sardegna “non ha sofferto di prepotenze baronali e quindi non conosce il ribellismo”, è voler ignorare la nostra storia, è dimenticare tutti i moti antifeudali, dimenticare la gloriosa rivolta delle ville del Logudoro e la lotta di G.M. Angioy contro la prepotenza dei feudatari del secolo XVIII…».

Più oltre: «Esatto e da condividere pienamente è il giudizio di Montanelli sul banditismo: “Esso nasce dalla sfiducia nelle leggi dello Stato […]”. Ed è ver che tra il Meridione d’Italia e la Sardegna esistono sostanziali differenze: “Non c’è in Sardegna una industria della delinquenza […]. Ma è anche vero che i problemi di fondo della Sardegna si risolverono, pur differenziatamente, all’interno del grande problema meridionale concepito come il problema dei problemi dello sviluppo economico e sociale della nazione. E’ vero che la Sardegna “non può fare a meno della sua pastorizia e che bisogna provvedere a risolverne la crisi”, che “si potrebbe rimediare migliorando il prodotto” mediante “uno sforzo cooperativistico”; ma pensare che il problema sardo non è quello industriale, sebbene quello di “istituire dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica produzione sicura, quella del latte e dei formaggi”, è come non aver mai pensato all’avvenire della Sardegna in un mondo progredito e moderno.

«Anche sul problema dell’agricoltura Montanelli dice cose giustissime. È vero che l’ordinamento fondiario della Sardegna è tale da impedire ai sardi di manovrare l’acqua dei bacini mediante la costruzione dei canali di irrigazione. Ed è vero che il problema più grave è quello dell’emigrazione, che ci fa mancare la manodopera proprio nel momento in cui potrebbe avvenire la trasformazione, cioè proprio quando il fabbisogno di manodopera agricola si moltiplica. La situazione della proprietà fondiaria è tale che realmente, come dice Montanelli, non esistono attualmente in Sardegna “zone omogenee”. Ma le illazioni che trae da tutto questo non si possono in nessun modo condividere. Che queste siano “le sorprese che riserbano i piani” non si può onestamente sostenere. Come non si può onestamente sostenere che i sardi non siano mai stati affezionati alla terra e che in Sardegna non ci siano mai stati movimenti contadini…».

“Troppa carne al fuoco!”

Impressionante e condivisibile, in generale, il quadro tracciato di Carbonia. «Ma come si fa ad accogliere gli errori madornali che sono disseminati sulla questione delle elettricità? Chi ha detto a Montanelli che “nel campo dell’energia elettrica, la regione ha precorso la nazione, sottraendola alle società private”? Chi gli ha sussurrato che alla fine la Regione fece il colpo grosso di assorbire anche la Ses? Certamente su questo punto è stato male informato. Ma il sugo di tutta l’inchiesta è nella conclusione della quarta puntata. La supercentrale per Montanelli avrà, in campo industriale, lo stesso destino dei grandi bacini in campo agricolo. Tutto “rischia di arrivare in tavola a commensale già morto”.

«Si è “messa troppa carne al fuoco”. “Sono le sorprese che riserbano i piani”. La classe dirigente sarda “vede la montagna, ma ignora il muretto e vi inciampa”, disprezza quelle riforme spicciole e graduali che sole possono avviare un sano e organico sviluppo. Si preoccupa delle “riforme di struttura, ma non ha ancora istituito dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica sua produzione sicura: quella del latte e dei formaggi” […]. Montanelli non crede, dunque, alla industrializzazione della Sardegna. Crede ai formaggi. Perché il sardo è pastore per natura, oltre che per tradizione storica. Ha fatto della pastorizia una categoria spirituale, oltre che economica, del popolo sardo. Mi scuserà Montanelli, ma tutto ciò è assurdo».

In conclusione: «Quanto al giudizio sulla classe dirigente sarda, quella del passato e quella del presente, così come risulta da queste prime quattro puntate dell’inchiesta, riconosciamo che esso è pesante, ma giusto. Ed è pesante soprattutto perché viene da destra. Gli attuali dirigenti della vita democratica sarda dovrebbero riflettere seriamente sul rimprovero di Montanelli. L’appunto che a loro muove Montanelli non è quello di essere a destra, ma quello di non costituire una classe dirigente abbastanza evoluta, tale, cioè, da essere sopportata appunto come classe dirigente».

È ben credibile – sottolinea Gianfranco Murtas – che, a sviluppare la ricerca, diversi altri interventi pro-o-contro i giudizi di Montanelli e del Corriere si troverebbero sulla stampa sarda, tanto più quella periodica politica (Rinascita Sarda, ecc.) o nelle sedi politiche. Può essere impegno per il futuro.

Le riserve di Botticini

Varrà la pena di chiosare – scrive Murtas – riferendo che, in un articolo dal titolo “La Sardegna di Montanelli”, su L’Unione Sarda del 1° febbraio 1966 Rinaldo Botticini commenterà il  lavoro del columnist del Corriere quando esso sarà ormai impaginato nel corposo volume di cui ho detto (Italia sotto inchiesta, 1965) piuttosto criticandolo (talvolta quasi caricaturandolo) che approvandolo, naturalmente. Ne voglio dar conto, pur se si tratta di commento conclusivo di un testo non ancora qui esposto nel suo lungo dettaglio, e soltanto anticipato nel merito.

Scrive Botticini, dopo aver fornito un quadro complessivo dell’inchiesta multiregionale: «Ma quando siamo arrivati alla Sardegna, forse anche perché abbiamo la pretesa di sapere di lei più di Montanelli che ci è vissuto nei suoi teneri anni, ma l’ha dimenticata, mentre noi ci viviamo e ci soffriamo in questi nostri duri anni che s’avviano a maturità, abbiamo fatto una serie di osservazioni critiche non sempre favorevoli al grande nume del giornalismo italiano.

«Per Montanelli la storia della Sardegna incomincia nel 1946, quando c’era il caos, cioè la malaria, con i suoi 75.000 colpiti, che sono rimasti per questo decurtati nel fisico e atteggiati a stoicismo passivo. Così è frutto della malaria il fatto che il sardo si sia asserragliato sulle montagne e che non abbia alcuna iniziativa. Così l’introversione sarda prima che un fatto storico e psicologico è, per lui, un fatto geofisico.

«La Sardegna non ha città: Cagliari e Sassari sono ancora villaggi cresciuti; non ha architettura checché ne dicano Corrado Maltese e Vico Mossa; non ha storia, ma solo leggenda; non ha politica, ma clientelismo; non ha classe aristocratica o borghese, perché i sardi sono tutti pastori (“che faccia il medico o l’avvocato, o il negoziante, gratta un sardo e ci troverai un babbo o un nonno pastore”). E il pastore è visto “ritto su un sasso, appoggiato al suo bastone di vincastro, in una immobilità quasi minerale”.

«E se la agricoltura sarda è in ritardo lo si deve alla pecora che ha divorato quasi tutto e al pastore che ha appiccato fuoco al resto. In agricoltura la manodopera manca, ma il motivo non è politico, né economico, né sociale. Il motivo è soltanto di ordine comportamentistico: la manodopera manca perché le donne non lavorano e gli uomini se ne vanno.

«Insomma Cristo stavolta s’è fermato a Civitavecchia, se Carlo Levi ci permette di parafrasare un suo fortunato titolo, perché i sardi non meritavano di essere visitati essendo tutti matti e disuniti…

«Quando gli articoli riguardanti la Sardegna, ed ora raccolti assieme agli altri riguardanti le altre regioni in questo grosso libro (928 pagine), apparvero sul massimo organo di stampa milanese, suscitarono da noi reazioni e commenti sfavorevoli, addirittura di irritazione.

«Forse perché, come notava allora un settimanale di estrema sinistra, l’ideologia dei gruppi di cui il Corriere è portavoce era troppo distante dalla realtà effettiva del Mezzogiorno e della Sardegna, e dal complesso di idee, di principi, di aspirazioni che prevalgono nella coscienza della gente sarda e del suo movimento democratico e autonomistico.

Realtà diversa da come la racconta Indro

«E può essere vero, come può essere vero che la storia sarda, quando Montanelli la sfiora, diventa una favoletta che potrà soddisfare i petrolieri lombardi, ma non ha niente a che fare con la vera storia nostra che è di oppressione baronale, piemontese e capitalistica. Ma è soprattutto vero che la realtà sarda è composita e spesso cruda e che non basta, a penetrarla, soffermarsi in Sardegna alcuni giorni per far scintillare poi frasi suggestive o ironiche sulle colonne dei giornali.

«La civiltà sarda non è una civiltà di pietra, come da alcune parti si vuole, ma neanche una civiltà di cartapesta, fatta di onorevoli o di pastori ieratici. E’ prevalentemente una civiltà di lacrime e di sangue, si sacrificio e di morte: la civiltà di un popolo che ha sofferto ed ha goduto forse ancora nulla e che, ora, è teso nel suo faticoso riscatto».

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