L’alba cruenta di un’Italia diversa

A proposito del 25 aprile

Sin dal mattino del 25 aprile 1945 scoppiarono i primi scontri a Milano. A Genova i combattimenti infuriavano già da due giorni e la città era quasi in mano ai partigiani. Anche Torino si preparava a cacciare i nazifascisti.

Ma la partita decisiva si sarebbe giocata quel pomeriggio del 25 nella sede dell’Arcivescovado milanese dove il cardinale Schuster, per tentare un’ultima, disperata mediazione, aveva convocato le parti. Mussolini arriva accompagnato dal generale Graziani e dai gerarchi Barracu e Zerbino. Per il comitato di Liberazione nazionale dell’Alta Italia (CLNAI), che guida l’insurrezione partigiana al nord, si presentano il generale Raffaele Cadorna, il segretario della Dc Achille Marazza e l’azionista Riccardo Lombardi, più tardi giungeranno il liberale Giustino Arpesani e il socialista Sandro Pertini. Mussolini chiede quali siano le condizioni della resa. <<Incondizionata ed entro due ore>> è la risposta. Il Duce è stravolto, non è ciò che si aspettava. In quell’istante viene a sapere che già da due mesi i tedeschi stavano trattando per proprio conto con gli anglo-americani. Mussolini – racconta Giorgio Bocca – si alza pronunciando frasi sconnesse, minacce e va via. In serata fuggirà per Como. Sono le 19. In quella stanza si sono fronteggiate due diverse idee di Italia: una, quella fascista, che sta irrimediabilmente franando; l’altra che pare avere la vittoria in pugno. Perché, tra ordini di conferma e voci di disdetta, tutti sanno che è l’ora della resa dei conti. A Milano si consuma l’ultimo atto del fascismo. La fine della giornata segna l’alba di una nuova Italia.

I partigiani hanno vinto. Ma il bilancio della Resistenza è molto pesante. Su circa 200 mila partigiani che hanno preso parte alla lotta armata si contano 45 mila caduti, 20 mila invalidi. Ai quali si devono aggiungere i 600 mila militari italiani deportati in Germania perché rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò.

Ricorre l’anniversario della Liberazione (73 anni fa) che si porta dietro le solite polemiche sul revisionismo, le critiche ai libri di Giampaolo Pansa, le contestazioni della destra storica che vuole fare le sue  commemorazioni in ricordo <<di chi fece un’altra scelta>>>. Inoltre continua il confronto sulla paternità della Resistenza che non appartiene esclusivamente ai comunisti della “Garibaldi” (come pretendeva il vecchio Pci), ma a tutte le brigate che combatterono con diverse sigle ed ideologie. Scrive Bocca: <<La Resistenza è semplicemente quello che è e che sarà per sempre nella storia: una guerra politica, la cruenta, penata gestazione di un’Italia diversa. Dunque né Resistenza fallita, né Resistenza tradita ma difficile, in parte deludente, promozione politica e civile di una nazione>>.

Per Claudio Pavone tre furono le guerre che gli uomini e le donne della Resistenza hanno combattuto: una “patriottica” contro l’invasore tedesco; una “civile” contro il fascismo di Salò, e una “di classe” per l’emancipazione sociale. Molte interpretazioni hanno dato e continuano a sfornare gli storici, sviscerando ogni aspetto del dibattito. Di certo ci fu una resa dei conti – quella raccontata da Pansa, per intenderci – con la sanguinosa vendetta comunista nel “triangolo rosso” dell’Emilia e nel nord Italia, ma senza la Resistenza non sarebbe nata l’Italia repubblicana. E questo è fuori discussione. Come sostiene un altro autorevole studioso quale Giovanni De Luna che, rompendo una sorta di recente tabù culturale, spiega le radici della violenza partigiana. <<La Resistenza – afferma –  fu necessaria e vide così tante “anime” convergere in nome di un ideale comune per il quale combattere, vale a dire per mettere in campo un uso consapevole e legittimo della violenza. I partigiani presero le armi, ma la loro scelta fu radicalmente diversa rispetto a quella dell’altra parte. In una parola fu legittima ed etica>>. Si può non essere d’accordo con De Luna, ma bisogna continuare a riflettere sulla memoria di un’Italia divisa, contro una politica “usa e getta” del passato.

Fonti:

Da L’Unione Sarda, 22.4.2018

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