La Sardegna vista da “fuori”

L'analisi di Andrea Corda
Giornalismo in Sardegna 1948-2013 - 2015

Andrea Corda, nel suo corposo studio dottorale di storia moderna e contemporanea del 2014, entra nel dettaglio del reportage pubblicato, giusto mezzo secolo avanti, dal quotidiano di via Solferino, diffondendosi a stralciare da esso, con coerente ed apprezzabile indirizzo interpretativo, il giudizio montanelliano sul presente (ed il recente passato) isolano, prefigurando opportunità, ma forse più ancora rischi dallo sviluppo promesso al neppure un milione e mezzo di abitanti fra plaghe costiere e zone montagnose dell’interno.

Al saggio di Corda (nella foto) in questo sito dedichiamo due post nella categoria GIORNALISMO

  • Il primo “Giornali, storia e retroscena” riassume e illustra l’intero lavoro. Ecco il link
  • Il secondo, a seguire, “Giornalismo in Sardegna tra 1948-2013″, presenta il PDF dell’intera tesi con un’amplissima bibliografia. Si veda  il link del volume.

 

La parte riguardante Montanelli si ritrova nel Capitolo 4, “La Sardegna vista da fuori” (da pag. 68 a pag. 72) che qui riportiamo nel contesto di questo studio sul grande giornalista toscano e i suoi reportage sull’Isola.

 

«L’anno della “grande svolta” per la Sardegna fu il 1946: “E a provocarla – questa la ricostruzione testuale del giornalista – non fu la politica, ma la chimica. La Fondazione americana Rockefeller aveva deciso di tentare un esperimento integrale di disinfestazione dalla malaria col D.D.T., in un bacino chiuso del Mediterraneo, e aveva scelto Cipro. I quadrimotori erano già in viaggio con il loro carico, quando un esponente sardo del partito liberale, Sanna-Randaccio, riuscì in extremis a convincere il comando alleato a dirottarli sulla sua isola. Non so a quali argomenti ricorse. Forse bastarono le statistiche. Quell’anno, di malaria, c’erano stati settantacinquemila nuovi casi. Il flagello dilagava. Gli uomini della ‘Rockefeller’ riconobbero lo stato di emergenza e gli concessero la priorità. Su due piedi fu costituito un Ente regionale per la lotta antianofelica o E.R.L.A.A.S.”».

 

Lotta alla malaria

Ancora Montanelli: «la convenzione geografica vuole che la Sardegna faccia parte del Mezzogiorno e del suo “problema”… Ma le differenze sono sostanziali e decisive. Anzitutto, manca nell’isola il fenomeno delle città congestionate e traboccanti. Cagliari e Sassari non sono state fino ad oggi che dei villaggi cresciuti, e solo ora cominciano ad acquistare una fisionomia metropolitana. La società pastorale sarda non era in grado di sviluppare una civiltà urbana. […] Ma c’è, a differenziare la Sardegna da tutto il resto del Sud, anche un altro fatto, di ordine sociale: la mancata sovrapposizione di una casta conquistatrice, aristocratica e latifondista. […] Altro carattere distintivo dal resto del Mezzogiorno: appunto la mancanza di una società feudale in decomposizione, in Sardegna non c’è nulla di decadente, di corrotto e di degradante. […] questa terra povera non è “depressa” nel senso in cui lo sono le altre terre del Sud. È soltanto primitiva; ma compatta e sana, senza nulla di dissolvente e di putrefatto. Altra particolarità che la differenzia dal Sud: la sua bassa pressione demografica. La Sardegna rappresenta l’otto per cento della superficie nazionale, ma meno del tre della popolazione. Ciò vuol dire che, mentre in Italia la media è di 168 abitanti per chilometro quadrato, in Sardegna è di 59».

 

Banditismo in Sardegna: foto segnaletiche di latitanti sardi nel primo Novecento

Sulla questione della criminalità indigena, in specie rurale, pasto quotidiano della cronaca dei giornali locali e nazionali: «Il banditismo, quando si fa un’inchiesta sulla Sardegna, è tema d’obbligo. Ma io intendo sbarazzarmene in poche parole, perché non c’è nulla di nuovo da scoprire, se non il fatto ch’è circoscritto a una sola provincia e non riesce a dare alla Sardegna nessun primato nella delinquenza. Per strano che possa sembrare, la Sardegna occupa uno degli ultimi posti nella graduatoria nazionale della criminalità. Ce n’è molta di più in Lombardia o in Toscana. Quello che rende sensazionale il delitto sardo è il suo carattere primitivo e elementare. Esso nasce dalla sfiducia nelle leggi dello Stato, dall’impegno morale di farsi giustizia da sé, come avviene in tutte le civiltà arcaiche, e quasi sempre ha come pretesto iniziale il furto di bestiame. È tutto qui. Intorno ad esso non si sviluppano speculazioni, come accade per esempio in Sicilia. Non c’è in Sardegna una industria della delinquenza, una associazione per il suo sfruttamento, come lo sono la mafia e la camorra, che poi contaminano per metastasi tutta la società».

Sardegna e Sicilia a confronto

Interessante la descrizione dell’organizzazione della Regione autonoma, significativamente confrontata con quella della Sicilia: «La Regione venne istituita nel ’48. Anch’essa ha uno statuto speciale, ma i suoi poteri sono meno larghi (e i suoi fondi meno cospicui) di quelli riconosciuti alla regione siciliana. Nelle loro rivendicazioni i sardi si sono mostrati molto più prudenti, cauti e misurati. Non hanno conteso allo Stato la funzione di garante dell’ordine pubblico, non hanno preteso di sostituirglisi nel campo dell’istruzione, dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, come hanno fatto quelli di Palermo, che poi hanno spiegato in tutti questi settori la competenza e il rigore che purtroppo abbiamo visto. Hanno soltanto chiesto e ottenuto di “amministrarsi” da sé. […] Il traguardo dell’autonomismo era l’eliminazione di una categoria di “notabili” che si ponevano a intermediari fra il cittadino e lo Stato. […] Alla regione sarda giova molto il confronto, che viene spontaneo, con quella siciliana. I nove assessori del piccolo governo di Cagliari e i settantadue consiglieri che ne compongono la assemblea non forniscono lo sconcertante spettacolo di fasto, di arroganza e di disinvoltura manovriera che offrono i loro colleghi di Palermo. […] Ma, quanto a vero rinnovamento politico in senso democratico, passi avanti non mi pare che se ne sia fatti. Prendendo il posto del vecchio “notabile”, il dirigente regionale lo è diventato a sua volta, e lo dimostra la sua perennità. […] Se si facesse un plebiscito sulla regione, credo che, a differenza della Sicilia dove il “no” sarebbe massiccio, essa verrebbe riconfermata. Ma più per un viluppo di interessi costituiti che per convinzione ideologica. L’uomo della strada in Sardegna si sente lontano, estraneo alla Regione, come per secoli lo fu allo Stato centrale. […] In tutto questo, la responsabilità dei partiti è grave».

Foto simbolica della transumanza in un documentario sulla pastorizia nell’isola

Il pastore – a giudizio di Montanelli – era il vero protagonista della vita socio-economica dell’Isola: «È lui il solo essere umano che s’incontra traversando le solitudini del “profondo Sud” […], la provincia di Nuoro: ritto su un sasso, appoggiato al bastone di vincastro, in un’immobilità quasi minerale». Seppure statisticamente in calo, restava immutato il peso da lui «esercitato sulla mentalità, sul costume, sulla socialità, o per meglio dire sulla asocialità della Sardegna».

Nella sua percezione, anche la borghesia professionale doveva fare i conti con le proprie ascendenze pastorali, con la conseguenza di una certa «allergia alle iniziative», l’«inesausta sete di libertà e di solitudine», il «forsennato individualismo». «È lui che ha dato un carattere ai sardi. […] È lui [il pastore] che campeggia nei componimenti della scarsa letteratura sarda, i romanzi della Deledda e le poesie di Sebastiano Satta». E «nella difficile coabitazione della tradizionale pastorizia con una agricoltura in sviluppo e che, bene o male, si va modernizzando, sono compendiati molti dei più annosi e difficili problemi dell’isola».

Il dominio dei pastori

Ecco una più mirata disamina: «Eppure, la Sardegna non può fare a meno della sua pastorizia, che fornisce il quarantacinque per cento al suo complessivo prodotto agrario; e ci sono intere province, come quella di Nuoro, che, senza la pastorizia, letteralmente morrebbero. Bisogna quindi trovare delle condizioni che le consentano di convivere con l’agricoltura in sviluppo. Ma il problema è di difficile soluzione […]. Il bestiame sardo è composto quasi tutto di pecore. Ce ne sono circa due milioni e mezzo, che rappresentano un buon trenta per cento del patrimonio complessivo nazionale. […] La condizione del pastore non è, come molti credono, delle più misere, almeno sul metro sardo. A diecimila lire a pecora, il proprietario di duecento pecore ha un reddito annuo lordo di due milioni. […] Ma gran parte del guadagno se ne va nell’affitto dei pascoli, che cresce col restringersi delle zone ad essi adibite. […] Al crescente costo dei pascoli si aggiunge un altro motivo di crisi: l’abigeato, eterna piaga della Sardegna che non accenna a guarire. Il derubato non denuncia il ladro, nemmeno se lo ha riconosciuto, per paura della vendetta. Preferisce rivalersi su un terzo, che a sua volta si rivale su un quarto. E ne deriva un generale stato d’insicurezza, in cui ognuno è alla mercé di ognuno. […] Tutto questo ha creato un fenomeno assolutamente nuovo per la Sardegna: l’esodo in continente. I sardi non sono mai stati migratori. E meno di tutti lo era il pastore, legato alla sua terra da un vincolo quasi di consustanzialità. Ora ha imparato la strada del mare e della Maremma, dove i pascoli sono più a buon mercato, e l’abigeato non esiste. S’imbarca con l’armento, col cane, col giaccone di velluto, col mantello d’orbace, e forse con la disperazione nel cuore. Ma si imbarca».

Scorcio della Costa Smeralda

 

Il settore del turismo

Così nella sintesi proposta da Corda: «Secondo la prima firma del Corriere della Sera, la Sardegna non era ancora stata assaltata dalla massa di villeggianti a basso costo, proprio a causa del suo isolamento geografico. Nemmeno i sardi sembravano però consapevoli dello splendore del loro paesaggio costiero. Il turismo, che nella regione aveva conosciuto un boom fin dallʼinizio degli anni Sessanta, sarebbe dovuto essere disciplinato. Il rischio, paventato da Montanelli, era che le incantevoli riviere sarde potessero fare la fine di Ostia e Fregene, prese d’assalto dai turisti. E già si avvertivano i segnali delle devastanti lottizzazioni a venire, con il loro corredo di brutture architettoniche e scempi paesaggistici». Ecco Montanelli: «È curioso che in questa classe dirigente assetata di “piani” non ce ne sia uno per il turismo, la più promettente e sicura di tutte le industrie, che provveda almeno a impedire la distruzione della sua materia prima: la natura, contro cui si vanno perpetrando autentici delitti architettonici».

Circa lo stato delle campagne e l’incubo permanente (e rischio e danno per il reale tanto spesso) della siccità, ecco ancora Montanelli inviato speciale nella… extraterritorialità di Arborea: «i grandi nemici della Sardegna, quelli che per secoli ne hanno reso stento [sic] e ritardatario lo sviluppo, erano la malaria e la siccità. La malaria, grazie agli americani, è stata combattuta e debellata in quattro anni di battaglia. La lotta contro la siccità continua da quasi mezzo secolo. Siamo alle porte della vittoria. Ma ci siamo da un pezzo. Quanto dovremo rimanerci?».

Certamente invasi e condotte lunghe chilometri avevano alleggerito la storica sofferenza delle campagne e dunque delle comunità rurali, ma pure restava in dubbio se la tardiva risoluzione di annosi problemi potesse rappresentare, per il vero, la svolta tanto attesa: «Ma non sarà troppo tardi? Ci saranno ancora le braccia necessarie per sfruttare la nuova ricchezza, in una Sardegna, che nell’ultimo lustro ha registrato un esodo di massa di circa 50.000 persone emigrate, ossia circa il 10% delle 430.000 unità lavorative totali?». Scettica la risposta: «Siamo sicuri che prima o poi l’acqua ai campi arriverà. Ma non siamo altrettanto sicuri che ci trovi ancora le braccia necessarie a sfruttarla. Il ritardo potrebbe rivelarsi catastrofico e irreparabile».

La Supercentrale di Porto Vesme

A dire poi di industrializzazione. Ecco nuovamente la sintesi offerta da Andrea Corda: «Montanelli sosteneva che Il carbone è un ammalato grave che può contagiare la Sardegna. Nel sommario si legge: “La sua qualità è cattiva e il costo di produzione e di trasporto molto elevato. L’ultima terapia escogitata, la Supercentrale elettrica di Porto Vesme, è il campo in cui i partiti politici si stanno dilaniando in un duello all’ultimo sangue”. Su questi temi, egli citava Salvatore Cambosu». Ed eccolo infatti l’inviato del Corriere riferirsi all’autore di Miele amaro: «la nonna dei minatori sardi, Vincenza Urru, è morta nella convinzione che il carbone del Sulcis fosse oro, che in carbone si tramutava per sortilegio, appena tocco [sic] dalla mano avida dell’uomo. Se è vero, bisogna attribuire a nonna Vincenza un certo potere divinatorio perché infatti quel carbone sarebbe stato più prezioso dell’oro solo se lo si fosse lasciato dov’era. […] La Sardegna è la terra italiana più ricca di minerali. Suoi sono tutto il nostro arsenico e antimonio, il novanta per cento del piombo, il settantacinque del rame, il settanta dello zinco, il cinquanta del bario […] Ci sono, è vero, nelle viscere del Sulcis, milioni di tonnellate di carbone. Ma di cattiva qualità e di costosa estrazione».

Minatori al lavoro in un pozzo del Sulcis, anni 60

Ancora: «L’opinione che mi sono fatta (e spero di sbagliarmi), è che, com’è avvenuto per l’irrigazione, anche per l’industrializzazione si sia messa troppa carne al fuoco, che rischia di arrivare in tavola a commensale già morto di fame. Anche in Sardegna la classe dirigente mostra tanta intelligenza dei problemi generali quanto negligenza di quelli particolari. Vede la montagna, ma ignora il muretto e v’inciampa. Non pensa che alla palingenesi, e disprezza quelle riforme spicciole e graduali, che sole possono avviare un sano e organico sviluppo. Si preoccupa delle “riforme di struttura” e delle “industrie di base”, ma non ha ancora istituito dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica sua produzione sicura: quella del latte e dei formaggi».

Quasi in conclusione del suo reportage Montanelli cercò di approfondire i temi particolari della legge di Rinascita, così presentata nel sommario: «Solamente un dialogo più ordinato fra Cagliari e Roma potrebbe colmare certe gravi lacune e contraddizioni. Il piano della rinascita deve avere carattere veramente aggiuntivo e non sostitutivo delle spese ordinarie». Premessa e monito che avrebbe coinciso con gli addebiti allo Stato – addebiti generali e generalizzati –, a cose fatte, di non aver adempiuto agli impegni.

Imponente diga sul Flumendosa

Così analisi e riflessioni, fra esperienza e aspettative: «Dal ’50 ad oggi lo Stato ha speso in Sardegna qualcosa che oscilla sui seicento miliardi. Non si può dire che li abbia buttati al vento. Nello stesso spazio di tempo la produzione agricola è più che raddoppiata. Il reddito pro capite è aumentato del trenta per cento. La disoccupazione effettiva non supera le diecimila unità. L’industrializzazione ha preso l’avvio. Dei risultati insomma ci sono. Ma c’è da chiedersi se non se ne sarebbero raggiunti di migliori e più decisivi, se si fosse agito in maniera un po’ più ordinata. Gli interventi sono stati arruffati, discontinui e talvolta concorrenziali. Lo strumento principale è stata la Cassa del Mezzogiorno, che qui ha operato molto bene e con grande serietà in tutti i settori. Le faraoniche dighe sul Flumendosa sono merito suo. Dei duecento miliardi che la Cassa ha investito in Sardegna, non ho visto nulla, o quasi nulla, che si presti a critiche. Si capisce solo ch’è mancato un certo coordinamento, una rigorosa scala di priorità. E a questa carenza si deve lo squilibrio fra le troppe cose iniziate e le troppo poche concluse. Ma di ciò non ha colpa la Cassa. Ne ha colpa la mancanza di un organico “piano”. Eppure, questo “piano” era stato previsto nello stesso Statuto del ’48, che istituiva la Regione. […] Questo solenne impegno fu preso la bellezza di quindici anni fa. E, se si fosse attuato subito, ora avremmo sotto gli occhi il primo esempio di “programmazione” su scala regionale. Invece si è trascinato fino ad oggi […] e sotto gli occhi ci mette la prova del disordine, della confusione e degli sprechi, in cui queste programmazioni sono destinate a gettare il Paese».

Il Piano di Rinascita

Nel 1961, in vista delle elezioni regionali, la Democrazia Cristiana – storico partito di governo anche nell’Isola – intendeva presentarsi come il garante dello sviluppo socio-economico della Sardegna, «e così – ecco Montanelli – il Piano di rinascita della Sardegna assolse il suo principale compito; che non è tanto quello di far rinascere la Sardegna, quanto di mantenervi al potere la D.C. Ma se questo fu il discutibile atteggiamento del partito di maggioranza, non meno discutibile fu quello dei partiti di opposizione. I quali risposero non con una critica al piano per l’impostazione che dava ai problemi e i mezzi che indicava per risolverli, ma mobilitando demagogicamente le passioni isolane contro quello che essi definiscono un attentato allo spirito dell’autonomia e alle prerogative della regione».

Il problema più annoso – nel rilancio della sintesi proposta da Corda a questo riguardo – «era dato dall’ambiguità dell’articolo 13, secondo cui il Piano doveva essere “predisposto dallo Stato con il concorso della Regione”. Tuttavia, “lo Stato aveva fatto tutto per conto suo. Si era fatto il progetto, se l’era approvato, e ora si preparava a realizzarlo. Il ‘concorso’ della Regione era solo la platonica presenza del presidente della Giunta, ma senza sostanziali poteri d’iniziativa e di veto, nel comitato dei ministri per il Mezzogiorno, supremo organo deliberativo. Questa non era più autonomia. Questa non era più democrazia. Questo era soltanto uno schiaffo alla dignità dei sardi, un disconoscimento del loro diritto di fare da sé”. Un quesito fondamentale si imponeva: il Piano di Rinascita “è un intervento straordinario aggiuntivo, cioè un ‘in più’, non un ‘invece’. Ma abbiamo la certezza che lo sia effettivamente?”. Ogni anno, infatti, lo Stato deliberava, settore per settore, ministero per ministero, gli stanziamenti in tutte le regioni, Sardegna compresa. Queste spese però non potevano essere programmate su vasta scala e a lungo termine, giacché i ministeri avevano un bilancio annuale e quindi potevano impegnarsi per un anno solo. Ebbene, il Piano era nato proprio per rimediare a questo difetto, come investimento aggiuntivo e non sostitutivo di quelli eventualmente previsti».

Altro sommario delle argomentazioni montanelliane circa il vero “oro” della Sardegna, il fattore umano cioè: «Purtroppo tutti i piani per il suo sviluppo si preoccupano unicamente delle “cose”. Perché quelli che emigrano ritornano difficilmente. La vita delle donne fuori dell’uscio di casa è un salto molto difficile. I problemi dell’istruzione. Una regione che ha bisogno di pionierismo».

E qui, appunto, le considerazioni del giornalista: «Uno studioso sassarese di recente scomparso, il dottor Alivia, sosteneva che tutti i guai della Sardegna, perfino la malaria, erano dovuti allo spopolamento. È fatale, egli scriveva, che il posto abbandonato dall’uomo sia occupato dalle zanzare; e che là dove si consuma poco ci sia anche poco stimolo alla produzione. Il rigoglio delle iniziative è inversamente proporzionale alla disponibilità di spazio. La tesi mi sembra più suggestiva che persuasiva. Conosco paesi spopolati e floridi come il Canada, e ne conosco altri gremiti e miserabili come la Cina e l’India. Tuttavia è vero che in Sardegna il fenomeno rischia di diventare patologico e impone qualche misura profilattica […]. La gente se ne va, dicono, perché ancora non c’è una industrializzazione che offra alternative a un’agricoltura povera e disagiata. Il giorno in cui i sardi potranno fare vita di fabbrica e di città nella loro stessa isola, smetteranno di emigrare, e coloro che lo hanno fatto vi torneranno».

La storica scuola “A. Riva” di Cagliari, in piazza Garibaldi

Sull’istruzione: «nel ’51, su cento ragazzi sardi, erano ventidue quelli che non andavano a scuola; ora si sono ridotti a dieci. Il successo è notevole, ma avrebbe potuto essere definitivo se ci si fosse impegnati un po’ di più. Tranne che nell’ambiente dei pastori, il ragazzo sardo ci va volentieri a scuola e il padre ce lo manda. Ma le condizioni sono dure. Nella media nazionale, lo Stato spende per ogni scolaro quindici mila lire al mese. In Sardegna, tremila. Si economizza sulla refezione, sulla matita, sul quaderno, sulla disponibilità di insegnanti e soprattutto sulla edilizia scolastica. Se Dio guardi tutti i ragazzi sardi assolvessero l’obbligo della frequenza, sarebbero costretti a accatastarsi in cento per ogni aula».

Le conclusioni di Indro

Il settimo ed ultimo articolo del lungo reportage (quello “Ora la Sardegna cammina”) è così sintetizzato nella presentazione: «In ogni centro abitato sono finalmente arrivate la luce e l’acqua; cade in pezzi la vecchia economia basata sulle piccole autarchie familiari; circolano merci e idee. Il pericolo è quello di perdere di vista i termini concreti dei nuovi problemi, per la tendenza a politicizzare tutto».

Scrive Montanelli: «Il progresso dell’isola è innegabile, e lo si coglie a occhio nudo. Le strade non sono più piste nel deserto. In dieci anni le automobili sono cresciute da tremila a oltre quarantamila, le campagne […] stanno perdendo la solitaria solennità di una volta, si animano di uomini, di case, e anche di alberi. In tutti i centri abitati sono arrivate la luce e l’acqua. Vi è arrivata in massa la televisione: in un quinquennio gli abbonati sono passati da sette a sessantamila. Gli analfabeti sono ridotti a un dieci per cento. La vita dell’isola si sta liberando della sua millenaria sclerosi. Cade in pezzi tutta un’economia basata sulle piccole autarchie familiari e sulla compressione dei consumi. Circolano le merci, circolano le idee. I sardi, che non ne avevano mai sentiti, cominciano ad avere dei bisogni. Non si contentano più di vivere e di morire come sono nati. Stanno scoprendo che il denaro non è la ricchezza, ma solo lo strumento della ricchezza. E comprano. Comprano anche il superfluo. Un abile piazzista di elettrodomestici è riuscito a vendere dei magnetofoni a dei poveri contadini di Dorgali. Il volume delle importazioni dal continente cresce, malgrado la difficoltà e il costo dei trasporti. Cresce sproporzionatamente al volume delle esportazioni, aggravando lo squilibrio della bilancia commerciale dell’isola».

Problematiche gravi ed esigenti risposte tempestive e adeguate: «la forza centrifuga dell’esodo, che aveva assunto dimensioni massicce soprattutto dal 1960 al 1963; il monopolio “strangolatore” della Tirrenia, il cui effetto era stato quello di paralizzare i traffici della Sardegna, oberando le merci di un costo di trasporto che aveva posto l’isola in condizioni di inferiorità rispetto alla concorrenza. Inoltre, secondo Montanelli, tutta la produzione agricola e casearia sarda risultava alla mercé di oligopoli continentali che la sfruttavano senza scrupoli».

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