Sete e esodo

Terza puntata dell'inchiesta
Corriere della Sera - Domenica 11.06.1963

La terza puntata dell’inchiesta in Sardegna. Qui ripercorriamo i passi più significativi del reportage sul Corriere, con i temi evidenziati dai nostri titolini e in corsivo il nostro testo.

Nel libro l’articolo si ritrova al paragrafo 4: Sete e esodo (pag. 907). In allegato pubblichiamo il testo per esclusivo uso consultivo e accademico.

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Titolo:

I campi in Sardegna soffrono ancora la sete

Sommario:

Opere colossali sono state compiute, in nobile gara, per combattere la piaga della siccità – L’acqua raggiunge già città e paesi e prima o poi sarà risolto anche il problema dell’irrigazione agricola – Ma non sarà troppo tardi? – Ci saranno ancora le braccia necessarie per sfruttare la nuova ricchezza?

 

[…] Circa lo stato delle campagne e l’incubo permanente (e rischio e danno per il reale tanto spesso) della siccità, ecco Montanelli inviato speciale nella… extraterritorialità di Arborea: «I grandi nemici della Sardegna, quelli che per secoli ne hanno reso stento e ritardatario lo sviluppo, erano la malaria e la siccità. La malaria, grazie agli americani, è stata combattuta e debellata in quattro anni di battaglia. La lotta contro la siccità continua da quasi mezzo secolo. Siamo alle porte della vittoria. Ma ci siamo da un pezzo. Quanto dovremo rimanerci?».

La colonia di Arborea

Nei campi ad Arborea

[…]  Il fascismo che ne aveva il potere (o che se lo arrogava), trapiantò in questo angolo di terra alcune centinaia di famiglie di contadini continentali, soprattutto veneti. E ne venne fuori, sul paesaggio bruno e brullo dell’isola, una macchia verde, che somiglia a un angolo di Val Padana.

La colonia prosperò negli anni venti, trenta e quaranta, fondò una sua piccola capitale linda e architettonicamente aggraziata, che prima si chiamò Mussolinia e ora Arborea: e i suoi abitanti crebbero fino a 4.500. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, l’area fu rilevata dall’ I.R.I., che a sua volta ne cedette il pacchetto azionario all’E.T.F.AS.

Il ruolo dell’Etfas tra luci e ombre

E.T.F.A.S è la sigla dell’Ente di Trasformazione Fondiaria e Agricola Sarda, cioè praticamente lo strumento della riforma agraria, che in Sardegna iniziò la sua opera con tre anni di ritardo sul continente. Lo dirige il professor Pampaloni, un toscano allievo di Serpieri. E naturalmente, come tutti gli enti di riforma, non gode di nessuna popolarità; è bersagliato dall’odio di coloro che sono rimasti vittime dei suoi espropri e dall’ingratitudine di coloro che ne hanno beneficiato. Confesso che, fra tante critiche raccolte sul suo operato, mi è stato un po’ difficile farmene un’idea. E non so se ci sono riuscito.

[…] Dicono che gli stessi assegnatari sono scontenti e lo dimostrano sia votando comunista, sia abbandonando il fondo. Dicono che l’ E.T.F.A.S. li lascia senza mezzi né difesa perché il denaro lo spende in stipendi ai propri funzionari. Dicono che ogni posto di lavoro è venuto a costare dai quattro ai cinque milioni. Dicono che, invece di produrre ricchezza, si è ripartita la miseria, e che la miseria crea soltanto miseria.

Sarà. Ma a me le cose sono apparse in una luce assai diversa. Della ventina di borgate rurali che l’ E.T.F.A.S. ha costruito, quelle che ho visitato (scegliendomele e andandoci per conto mio) erano, fra tutte quelle sarde, le più funzionali, le più moderne e le meglio dotate di servizi. Ho contato cinquantadue «cooperative aziendali» che, per il fatto solo di esistere, rappresentano, nell’anarchico individualismo sardo, un avvenimento rivoluzionario.

Secondo me, il bilancio dell’E.T.F.A.S. è positivo. Ma certamente lo sarebbe molto di più, e in modo da tappar la bocca a tutti i suoi critici, se ai poderi arrivasse l’acqua. Che c’è. Ce n’è anzi a bizzeffe. Ma ai campi non arriva.

Due dighe spettacolose, litigi tra Cagliari e Sassari

Antonio Segni

Montanelli descrive la guerra tra Cagliari e Sassari ll’interno della DC, tra il sassarese Antonio Segni ministro dell’agricoltura (e futuro presidente della Repubblica) e Maxia che creò l’Ente Flumendosa. 

[…] Intendiamoci bene: quello che si è realizzato sul Flumendosa è un capolavoro d’ingegneria. Due spettacolose dighe hanno invasato seicentocinquanta milioni di metri cubi d’acqua, e rappresentano una delle più belle e perfette opere compiute dalla Cassa del Mezzogiorno. Quindi la rivalità, in un certo senso, è stata proficua. Ma ha dato l’avvio a una gara in cui si è finito per perdere di vista quello che doveva essere il vero traguardo di tutti questi magnifici, ma costosi lavori: e cioè l’irrigazione. In cerca di rivincita, l’E.T.F.A.S. si è buttato a sua volta ai bacini idrici, e ne ha costruito uno sul fiume Liscia, destinato a dissetare tutta la piana nord-orientale fra Olbia e Arzachena.

Invasi per oltre 100 miliardi

Tutto quello che si è fatto insomma è stato fatto bene, anche se è costato qualcosa che nel suo insieme deve già superare i cento miliardi di lire, e i centocinquanta quando sarà ultimato. C’è solo da rimpiangere che in questa nobile gara a chi faceva di più e di meglio per dare da bere alla Sardegna si siano dimenticati i bicchieri, e ora non ci siano più soldi per comprarne. 

Bacini colmi ma l’acqua non arriva ai campi

Perché questa è la paradossale situazione in cui l’isola si trova. L’ingegner Martelli, presidente della S.E.S., che forse è il sardo più competente in materia, mi diceva che, secondo i suoi calcoli, ci sono, imprigionati nei bacini, un miliardo e mezzo di metri cubi d’acqua. Gli acquedotti hanno raggiunto città e paesi. Cagliari, che moriva di sete, ora deve difendersi dal flotto del Flumendosa, che mette a dura prova condutture e rubinetti, tanto è violento.

Ma fino ai campi questa grazia di Dio non giunge. 

Conclusione

Certamente invasi e condotte lunghe chilometri avevano alleggerito la storica sofferenza delle campagne e dunque delle comunità rurali, ma pure restava in dubbio se la tardiva risoluzione di annosi problemi potesse rappresentare, per il vero, la svolta tanto attesa. Montanelli si chiede se non sarà troppo tardi? Ci saranno ancora le braccia necessarie per sfruttare la nuova ricchezza, in una Sardegna, che nell’ultimo lustro ha registrato un esodo di massa di circa 50.000 persone emigrate, ossia circa il 10% delle 430.000 unità lavorative totali? 

Scettica la sua risposta: «Siamo sicuri che prima o poi l’acqua ai campi arriverà. Ma non siamo altrettanto sicuri che ci trovi ancora le braccia necessarie a sfruttarla. Il ritardo potrebbe rivelarsi catastrofico e irreparabile».

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